QUADERNI n.1 gennaio-marzo 2024

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Italo Bonassi
Dante: la ragione e la fede

A volte è bello andare anche controcorrente e dissacrare, però educatamente e con buonsenso, anche il grande sommo Padre Dante. E chiedersi che cosa lo abbia spinto ad inventarsi un aldilà straordinariamente non solo spirituale ma anche materiale, anzi tremendamente materiale, come nell’Inferno, con tutta quella spirale di bolge e con le anime dannate che soffrono le pene dell’inferno, chi immerso fino al collo nel ghiaccio, chi in quello che educatamente chiamo sterco di non si sa che animale, forse quello dei diavoli, chi tramutato in sterpi, che, allo spezzarli, si lamenta per la sofferenza, e così via. Ecco: il concetto del dolore fisico, residuo importato dal mondo dei vivi, a giustificare la legge del contrappasso.
Qui si direbbe che una straordinaria fantasia oppure una saldissima ma, con l’ottica dei giorni nostri, ingenua fede di credente medievale, od entrambe, fantasia e fede, siano prevalse sulla ragione, ed allora mi viene da pensare che cosa abbia maggiormente influenzato questo stupendo lavoro poetico, se cioè Dante credesse per davvero a quello che scriveva, se credesse a quell’Inferno da tregenda di atroci sofferenze tipiche della carne e che si assommavano a quelle dello spirito (anche se queste ultime le fa intravedere solo di rado), se credesse all’esistenza dei diavoli, con quei loro nomi strani e ridicoli ( Malacoda, Scarmiglione, Cagnaccio, Calcabrina, Barbariccia, Graffiacane, Draghignazzo, Farfarello, ecc. ) se credesse alle forche con cui straziavano i corpi delle anime, oppure sapeva, scrivendo, che era solo tutto parto della sua immaginazione?
Forte è a volte in me la tentazione di pensare che Dante, in fondo, è stato un grande bigotto, e questo suo bigottismo medioevale ha esaltato la sua fantasia fino a volerci far credere l’irragionevole, come se in lui nel conflitto tra la fede e la ragione abbia prevalso la prima, considerando che ai suoi tempi era ragionevole credere ai diavoli con tanto di coda e di corna, e si è quasi divertito a descriverli, perché anche i preti lo dicevano e parlavano di un inferno nelle viscere della terra; per non dire poi del purgatorio e del paradiso, la cui conformazione ufficiale era più o meno quella dantesca.
Fede e immaginazione possono per me coesistere solo fino a un certo punto con la ragione. Chi ha fede in qualcosa, crede e basta e non dà retta alla ragione. Ma io vedo in Dante un insieme favoloso e omogeneo di ragione e fantasia sublimato da un’incrollabile fede, non tanto nella Chiesa e nel Papa ( era un guelfo, sì, ma un guelfo bianco, come a dire un democristiano filomarxista ) quanto verso Dio.
In certi momenti dell’Inferno si ha del tragico e contemporaneamente del comico quando fanno la loro apparizione i diavoli od altri mostri infernali. Siamo nel Medioevo, e in quell’epoca l’uomo era assai impressionabile da tutto ciò che appariva minaccioso, anche se ridicolo: il pauroso superava l’idea del comico, c’era un’altra mentalità, che nel pauroso ridicolo faceva intravedere solo il pauroso.
Nell’uomo del medioevo la paura dei diavoli prevaleva sul grottesco dei loro nomi. Nessuno di certo rideva a leggere Draghignazzo o Barbariccia o Calcabrina. E Dante certamente lo sapeva, prodigando il comico ai suoi mostri infernali: qualche tratto grottesco spicca anche nelle fiere, in Cerbero, in Caronte ed in Minosse, personaggi per altro imponenti e serissimi, la cui descrizione aveva per Dante come fine non far sorridere e divertire il lettore ma impressionarlo. Ridicolo appare anche Pluto per le bizzarre parole che grida, e comici perfino i dannati che, almeno in Malebolge e in Cocito, si esprimono con grottesca volgarità. Ma Dante tiene sempre d’occhio la verosimiglianza drammatica, non la comicità. Il grottesco, il comico, scompaiono nella grande paura dell’orribile.
E anche l’aver messo tutti insieme nella Divina Commedia personaggi realmente esistiti e personaggi puramente mitologici, frutto della fantasia greco-latina, non è una nota stonata, anzi ne rafforza l’originalità del pensiero.
Ma è proprio qui la grandiosità di Dante, l’aver saputo far coesistere l’orrido, il tragico, il grottesco e la fede, ma sotto l’attento controllo della ragione dell’uomo colto che dà un tocco di fantasia a un insieme incredibile di orrido poetico nell’Inferno e di sublime e sacro nel Paradiso. E, non ultima, come ben si sa, grande è stata la sua intuizione di aver scelto come linguaggio quello della gente comune di allora, quello chiamato volgare (da: volgo, ossia popolo), gente tutt’altro che istruita, per la quale il latino era una lingua troppo complicata.
Solo San Francesco d’Assisi lo aveva preceduto con le sue Laudi.
San Francesco, considerato il primo poeta italiano.

(Quaderni gennaio-marzo 2024, pp.39-40)
Foto in copertina: Cassiopea, Odissea nello spazio (2023), opera di Loredana Bonassi.

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