QUADERNI n.2 aprile-giugno 2024

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Italo Bonassi
PERCHÉ SCRIVERE POESIA?

Spesso mi viene chiesto perché scrivo in poesia, e non, ad esempio, in prosa, cos’è che mi spinge a mettere in versi quello che si potrebbe più facilmente trascrivere in esteso sino alla fine della riga, senza quell’andare ogni tanto a capo che chi non sa di poesia non capisce.
Questo “andare ogni tanto a capo” che distingue i poeti dagli altri scrittori – narratori, novellieri, romanzieri, – mi fa un po’ sorridere come definizione, in quanto paragonare i versi ad un banale susseguirsi di “andare a capo” e i versi a delle semplici righe, è piuttosto riduttivo per chi la poesia la ama e ad essa dedica la propria passione.
Pure io a volte mi domando perché non mi metta a scrivere anche in prosa, una scelta di scrittura innegabilmente più semplice – soprattutto al giorno d’oggi, dato che si tende a scrivere così come si parla, senza troppe ambizioni letterarie e tantomeno senza preziosità lessicali, ma usando il comune gergo quotidiano, che è poi anche quello scelto dalla tivù, che non si può certo definire maestra d’italiano. –

In un’intervista pubblicata sui QUADERNI del Gruppo Poesia 83 nel maggio 2010, curata dal giornalista scrittore friulano Fulvio Castellani, Lida De Polzer, squisita poetessa triestino-varesina, afferma che, in quanto ad interdipendenza tra la poesia e la prosa, in poesia esce quello che si sa già, che si intuisce o si crede di intuire, mentre la narrativa spesso è una specie di “autoanalisi involontaria”, che la porta a capire “cose che non sapeva.”
Ebbene, per me è esattamente l’incontrario: la poesia, se è tale, è introspezione, autoanalisi, ricerca di sé stessi che si redime nella sacralità della Parola, quella che rimane nascosta dentro di noi, fa parte di noi, è il nostro io che ci parla dentro.
Una Parola meditata, plasmata, anche scarnificata fino quasi all’essenziale, la Parola che parla, non la parola parlata, la ciancia.
Qui sta la differenza, per me, tra la poesia e la prosa, cioè la prosa è il linguaggio abituale di comunicazione, trascritto con un certo stile e un certo afflato di sapiente originalità, mentre la poesia – sempre che sia poesia – è ispirazione, idealizzazione, meditazione, creatività e suggestione delle intuizioni e della fantasia.

Non è vero che la poesia ti viene giù di getto, tu la pensi e la mano ti va dietro esitante, e soprattutto non è quello che già si sa, che si intuisce o si pensa di intuire. È invece quello che non si sa di avere, e che si estrae – anche con sofferenza, – parola per parola, e, una volta che ce l’hai scritta sul foglio, ne fai la vivisezione, la correggi, la scalpelli, e, s’è il caso, la muti, o la elimini e cerchi il suo sinonimo, la Parola dalla P maiuscola.
La poesia, che è puro linguaggio ma anche ragionamento, può contenere anche dell’irrazionalità, la prosa no: tant’è vero che il grande movimento ermetico del 900 ha coinvolto la poesia ma ha solo appena sfiorato la prosa. Lo stesso discorso vale per il Futurismo. Per la prosa la Parola è solo un mezzo d’informazione, per la poesia è l’informazione stessa.

Raramente uno scrittore, – che so, un romanziere, – nel descrivere un incipiente autunno, potrebbe giungere a momenti di sublime e terribilmente semplice lirismo come ad esempio Vincenzo Cardarelli quando scrive:

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

L’arma del poeta è la metafora, come l’autunno del Cardarelli, che esprime l’idea del disfacimento della morte, un presentimento che si avverte già nelle irregolarità della stagione precedente, l’estate, con le sue prime piogge torrenziali che rinfrescano il bosco.
La prosa non ha bisogno di metafore, ma di un’abilità stilistica e di una certa maestria nel ricercare l’eleganza formale del discorso, al di là di ogni tentazione artificiosa come lo è appunto la metafora.
E soprattutto, là dove lo scrittore ha bisogno di una pagina, al poeta bastano solo due o tre “righe” ( i cosiddetti versi iniziali ):
Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.

(pp.75-76 Quaderni n.2 aprile-giugno 2024)

QUADERNI n.1 gennaio-marzo 2024

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Italo Bonassi
Dante: la ragione e la fede

A volte è bello andare anche controcorrente e dissacrare, però educatamente e con buonsenso, anche il grande sommo Padre Dante. E chiedersi che cosa lo abbia spinto ad inventarsi un aldilà straordinariamente non solo spirituale ma anche materiale, anzi tremendamente materiale, come nell’Inferno, con tutta quella spirale di bolge e con le anime dannate che soffrono le pene dell’inferno, chi immerso fino al collo nel ghiaccio, chi in quello che educatamente chiamo sterco di non si sa che animale, forse quello dei diavoli, chi tramutato in sterpi, che, allo spezzarli, si lamenta per la sofferenza, e così via. Ecco: il concetto del dolore fisico, residuo importato dal mondo dei vivi, a giustificare la legge del contrappasso.
Qui si direbbe che una straordinaria fantasia oppure una saldissima ma, con l’ottica dei giorni nostri, ingenua fede di credente medievale, od entrambe, fantasia e fede, siano prevalse sulla ragione, ed allora mi viene da pensare che cosa abbia maggiormente influenzato questo stupendo lavoro poetico, se cioè Dante credesse per davvero a quello che scriveva, se credesse a quell’Inferno da tregenda di atroci sofferenze tipiche della carne e che si assommavano a quelle dello spirito (anche se queste ultime le fa intravedere solo di rado), se credesse all’esistenza dei diavoli, con quei loro nomi strani e ridicoli ( Malacoda, Scarmiglione, Cagnaccio, Calcabrina, Barbariccia, Graffiacane, Draghignazzo, Farfarello, ecc. ) se credesse alle forche con cui straziavano i corpi delle anime, oppure sapeva, scrivendo, che era solo tutto parto della sua immaginazione?
Forte è a volte in me la tentazione di pensare che Dante, in fondo, è stato un grande bigotto, e questo suo bigottismo medioevale ha esaltato la sua fantasia fino a volerci far credere l’irragionevole, come se in lui nel conflitto tra la fede e la ragione abbia prevalso la prima, considerando che ai suoi tempi era ragionevole credere ai diavoli con tanto di coda e di corna, e si è quasi divertito a descriverli, perché anche i preti lo dicevano e parlavano di un inferno nelle viscere della terra; per non dire poi del purgatorio e del paradiso, la cui conformazione ufficiale era più o meno quella dantesca.
Fede e immaginazione possono per me coesistere solo fino a un certo punto con la ragione. Chi ha fede in qualcosa, crede e basta e non dà retta alla ragione. Ma io vedo in Dante un insieme favoloso e omogeneo di ragione e fantasia sublimato da un’incrollabile fede, non tanto nella Chiesa e nel Papa ( era un guelfo, sì, ma un guelfo bianco, come a dire un democristiano filomarxista ) quanto verso Dio.
In certi momenti dell’Inferno si ha del tragico e contemporaneamente del comico quando fanno la loro apparizione i diavoli od altri mostri infernali. Siamo nel Medioevo, e in quell’epoca l’uomo era assai impressionabile da tutto ciò che appariva minaccioso, anche se ridicolo: il pauroso superava l’idea del comico, c’era un’altra mentalità, che nel pauroso ridicolo faceva intravedere solo il pauroso.
Nell’uomo del medioevo la paura dei diavoli prevaleva sul grottesco dei loro nomi. Nessuno di certo rideva a leggere Draghignazzo o Barbariccia o Calcabrina. E Dante certamente lo sapeva, prodigando il comico ai suoi mostri infernali: qualche tratto grottesco spicca anche nelle fiere, in Cerbero, in Caronte ed in Minosse, personaggi per altro imponenti e serissimi, la cui descrizione aveva per Dante come fine non far sorridere e divertire il lettore ma impressionarlo. Ridicolo appare anche Pluto per le bizzarre parole che grida, e comici perfino i dannati che, almeno in Malebolge e in Cocito, si esprimono con grottesca volgarità. Ma Dante tiene sempre d’occhio la verosimiglianza drammatica, non la comicità. Il grottesco, il comico, scompaiono nella grande paura dell’orribile.
E anche l’aver messo tutti insieme nella Divina Commedia personaggi realmente esistiti e personaggi puramente mitologici, frutto della fantasia greco-latina, non è una nota stonata, anzi ne rafforza l’originalità del pensiero.
Ma è proprio qui la grandiosità di Dante, l’aver saputo far coesistere l’orrido, il tragico, il grottesco e la fede, ma sotto l’attento controllo della ragione dell’uomo colto che dà un tocco di fantasia a un insieme incredibile di orrido poetico nell’Inferno e di sublime e sacro nel Paradiso. E, non ultima, come ben si sa, grande è stata la sua intuizione di aver scelto come linguaggio quello della gente comune di allora, quello chiamato volgare (da: volgo, ossia popolo), gente tutt’altro che istruita, per la quale il latino era una lingua troppo complicata.
Solo San Francesco d’Assisi lo aveva preceduto con le sue Laudi.
San Francesco, considerato il primo poeta italiano.

(Quaderni gennaio-marzo 2024, pp.39-40)
Foto in copertina: Cassiopea, Odissea nello spazio (2023), opera di Loredana Bonassi.

QUADERNI n.4 ottobre-dicembre 2023

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Una riflessione sul sentire poetico, da pag.19

Marco Lando
LA POESIA NON CONOSCE CONFINI

Poesia è lingua comune che cerca di dire le cose ovvie che dal mondo di ciascuno vengono ricordate e vissute e parlate in pubblico, in privato ed anche nei sogni. Oppure nelle grandi tragedie della vita, ma anche nei nostri traguardi raggiunti con la fatica quotidiana o nella felicità di un affetto di un amore o nella tempesta di un abbandono, di una lite o di quei rumori che l’anima ci impone di ascoltare e che la scrittura traduce in sussurro e in canto dell’anima. Spesso c’è l’imbarazzo di leggerla perché troppo importante o ovvia e scontata oppure impudica o ridicola e balbettata come le parole di un bambino che gioca. Ma spesso si vive il conforto e la pace che ogni verso, anche il più banale ci suscita e ci fa sgorgare come una pioggia liberata in un cielo troppo cupo e minaccioso, dall’umore umbratile e introverso. Chi scrive poesia compie un viaggio straordinario e infinito, mai ai confini della realtà o dell’anima, ché anche il nulla o l’infinito o la disumanità di una certa vita con le sue tragedie guerreggiate o catastrofiche ci appartengono. Il poeta non si arrende e scava, cerca, narra.

I grandi maestri dell’anima dissero che quando muoiono i padri, i loro figli, sopravvissuti, iniziano a costruire una civiltà. Per questo, non v’è confine tra poesia e poesia: ogni forma è necessariamente civile e permette di conoscere, farsi conoscere, insegnare e imparare. Dante fece varcare le Colonne d’Ercole al proprio Ulisse per amore del sapere e per lo slancio che abbiamo assopito o manifesto dentro di noi e tra di noi, non in una gara o in un conflitto, ma in una condivisione del modo di vivere o di rappresentarsi dentro la vita. La poesia è lavoro per assoluta mancanza di termini e di confini, per la sua incessante spinta a capire e a formulare e riformulare la nostra storia e la storia delle persone, delle genti e della storia. Esiste un vocabolo inglese che esprime bene il concetto di spiegare qualcosa che sia degno di essere compreso ed è il verbo “to explane” cioè appunto spiegare quasi un gabbiano, come se la poesia dovesse sempre planare in volo nel senso reale e simbolico ad un tempo.

Poesia come sintonia col mondo e con l’anima, con il cosmo e anche con Iddio e come conoscenza dei danni del dolore, della morte e della morte permanente nel maligno, come ebbe a far capire Dante Alighieri, verso la chiarezza dello spirito per ciascun animo, assopito o desto o saggio che sia, sempre e comunque vivo, palpitante, fresco al risveglio e desideroso nella notte di conoscere ancora con il sonno i propri pensieri, quelli che trasformeranno ancora la sua vita e l’esistenza del mondo.

QUADERNI n.3 luglio-settembre 2023

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Proponiamo un articolo da pag.64

Italo Bonassi
L’ALDILÀ NELLA POESIA

L’aldilà? Ma cos’è? Esiste? Eugenio Montale, di fronte all’assurdo del problema esistenziale, cercava un varco, un passaggio per l’aldilà: Avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siano già morti senza saperlo.
La consapevolezza di un aldilà possibile gli ha fatto scrivere alcuni versi sofferti di grande poesia: Il viaggio finisce qui: / nelle cure meschine che dividono / l’anima che non sa più dare un grido…. / Il viaggio finisce a questa spiaggia / che tentano gli assidui e lenti flussi. / Nulla disvela se non pigri fumi / la marina, che tramano di conche / i soffi leni…. / Il cammino finisce a queste prode / che rode la marea col moto alterno. / Il tuo cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno.
In quell’eterno detto c’è il dramma di uno che vorrebbe credere.
Un’altra poesia emblematica di Montale, dice:
Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o lieto; forse il nostro cammino / a non tocche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza / o sarà forse un discendere / fino al vallo estremo, / nel buio, perso il ricordo del mattino…
La speranza in un Eden della Bibbia, con la fonte dell’acqua dell’eterna giovinezza. O la paura di una discesa in un vallo estremo.

La desolazione del pensiero moderno Mario Luzi la interpreta in una splendida poesia (Sulla riva) come pontili deserti che scavalcano le ondate e dove anche il lupo di mare si fa cupo. Che fai?, dice il poeta, Aggiungo olio alla lucerna, / tengo desta la stanza in cui mi trovo / all’oscuro di te e dei tuoi cari. Le ondate sono quelle distruttive del pensiero nichilista, in un’immagine drammatica e magnifica insieme. La brigata dispersa si raccoglie, / si conta dopo queste mareggiate. (…) L’uomo del faro esce con la barca, / scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Cosa devono fare gli uomini che mai hanno smesso di credere? Devono aggiungere olio alla lanterna, tenendo desta la stanza, ossia la fede in cui si trova la speranza. Chi è sopravvissuto alla non-fede, si raccoglie, si conta. E il poeta è uno di quelli che aggiungono olio alla lucerna, colui che come l’uomo del faro esce dopo la mareggiata a vedere di raccogliere l’eredità della nostra cultura bimillenaria.

I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.

La brigata dispersa si raccoglie
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? Ti spero in qualche porto…
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.

(Sulla riva, in Onore del vero, 1957)

QUADERNI n.2 aprile-maggio-giugno 2023

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Proponiamo di seguito un estratto dall’articolo di Italo Bonassi dedicato al poeta portoghese Fernando Pessoa, riportato per intero nelle pagine interne del trimestrale:

[…] Pessoa non è un autore ma un autore-folla, non una sola persona ma molte persone. Si può dire che la vita del poeta fu dedicata a creare, e che con questa creazione, creò altre vite: i suoi eteronimi, ossia i diversi Fernando Pessoa che riusciva a impersonare, che erano in lui. Attraverso questi, Pessoa conduce una profonda riflessione sulle relazioni che intercorrono fra verità, esistenza e identità. Egli scrive «Accendo una sigaretta per rinviare il viaggio. Per rinviare tutti i viaggi. Per rinviare l’universo intero. Ripassa domani, realtà.»

Il suo cognome significa del resto “Persona”, cioè maschera, cioè nessuno. E non a caso viene accostato a Pirandello. Alla base del suo lavoro letterario c’è un’erosione dell’io, quella che Valerie definisce il bombardamento nucleare dell’io. La sua opera è un inno alla menzogna artistica: nulla è più vero della finzione e nulla è più essenziale dell’ambiguità. È una dichiarazione di poetica di un maestro della mistificazione qual è Pessoa. Egli ha fatto della finzione il suo modo di essere; sua è l’affermazione “fingersi è conoscersi”. Questa affermazione poetica è una modalità di esistenza che fa di Pessoa un fingitore.

In una lettera, spiegando la genesi dei suoi eteronimi, scrive: «L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.» Sempre nella stessa lettera, descrive così la nascita del suo primo eteronimo, il suo “giorno trionfale”:

«Un giorno – era l’8 marzo 1914 – mi sono avvicinato ad un alto comò e, prendendo un foglio di carta, mi sono messo a scrivere, all’impiedi, come faccio ogni volta che posso. E ho scritto trenta poesie di seguito, in una specie di estasi di cui non riesco a capire il senso. Fu il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro come quello. Cominciai con un titolo: O Guardador de Rebanhos (Il Guardiano di greggi). E quello che seguì fu la nascita in me di qualcuno a cui diedi subito il nome di Alberto Caeiro. Scusate l’assurdità di questa frase: il mio maestro era sorto in me.»

Nei suoi versi c’è tutto l’occulto arcano del suo pensiero a volte allucinato, ma sempre di una spietata voglia di autodistruzione: Abiterò eternamente il deserto morto di me, / errore astratto della Creazione, / che mi ha lasciato indietro. / Arderà in me eternamente, inutilmente, l’ansia sterile del regresso di essere. Un’originalità unica di questo bizzarro poeta è che le sue opere sono firmate da questi eteronimi, ossia Federico Pessoa non figura l’unico autore dei suoi scritti, ma si firma con nomi di fantasia: Pessoa Ortonimo, ossia Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Coelho Pacheco e l’insonne Bernardo Soares col suo “Libro dell’Inquietudine”. Il crudele gioco di Pirandello (con le sue varie personalità e nessuna personalità in “Uno, nessuno e centomila”), è per Pessoa come un esercizio provocante di riflessione letteraria, conseguenza di una nevrosi sull’orlo della follia, che lo porta, come una sorta di un’autodistruzione, a scindersi in altri personaggi, altri sé stessi opposti e diversi uno dall’alto. Da qui nasce la poetica di Pessoa, come tutto e il contrario di tutto, cioè vivere nel dubbio, nel mistero, nel sogno, nell’incertezza della certezza, nel terrore per la soluzione di qualunque sia problema umano. [pp. 29-30]